Permettetemi di rievocare un’emozione che affonda le sue radici nella lontana infanzia.
Sapevo che esisteva ancora e ci sarò passato accanto chissà quante volte, ma quella domenica pomeriggio l’ho visto con altri occhi ed ha funzionato per me come la madeleinette di Proust. Così, «come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili», un intero mondo è sorto intorno a me quando mi sono fermato a guardare un po’ meravigliato, un mondo che nella memoria possedeva la stessa solidità di quello reale.
Sapevo che esisteva ancora e ci sarò passato accanto chissà quante volte, ma quella domenica pomeriggio l’ho visto con altri occhi ed ha funzionato per me come la madeleinette di Proust. Così, «come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili», un intero mondo è sorto intorno a me quando mi sono fermato a guardare un po’ meravigliato, un mondo che nella memoria possedeva la stessa solidità di quello reale.
Percorrevo Via Fratelli Cairoli in bicicletta, nella direzione indicata dalla freccia nella foto satellitare (tratta da Google Maps, come le altre che utilizzo in questo testo), quando l’ho rivisto lì sulla sinistra, immerso in un verde rigoglioso, e mi sono ritrovato d’incanto nella Fidenza di cinquant’anni fa.
È il pozzo n. 1 dell’acquedotto fidentino, ancora miracolosamente intatto in una città in cui molte preziose testimonianze del passato, anche recente, sono state distrutte e sostituite da costruzioni nuove, spesso purtroppo bruttissime. Eccolo indicato dal riquadro nell’immagine in dettaglio e ritratto in una fotografia che ho scattato qualche giorno dopo.
È il pozzo n. 1 dell’acquedotto fidentino, ancora miracolosamente intatto in una città in cui molte preziose testimonianze del passato, anche recente, sono state distrutte e sostituite da costruzioni nuove, spesso purtroppo bruttissime. Eccolo indicato dal riquadro nell’immagine in dettaglio e ritratto in una fotografia che ho scattato qualche giorno dopo.
Nella foto, il pozzo circolare in cemento; dietro, la bassa costruzione grigia d’accesso al pozzo e alla sala turbine; la costruzione gialla più alta è la centralina elettrica.
Qualcosa è rimasto, mi sono detto, mentre mi ritrovavo bambino sul bordo del pozzo, in cui non potevo assolutamente scendere. Mio padre mi portava con sé sul sellino posteriore della sua Gilera, quando doveva fare un intervento di manutenzione, con altri operai e idraulici.Io dovevo restare sul prato e, dall’alto, sentivo le loro voci ed i loro richiami echeggiare sul fondo.Quegli uomini portavano nomi mitologici, da epopea greca e romana: Paride, Enore, Egisto, Olinto, Dionisio. Alcuni tra i più giovani si fregiavano di soprannomi anch’essi in qualche modo mitici: il Gigante, Fustella, Trancia.
Per noi, che eravamo i loro figli, bambini o ragazzi tra gli anni ‘40 e i ’60, i lavori dell’acquedotto e le storie epiche che quegli uomini raccontavano erano un’educazione alla vita e ai sentimenti.Come si racconta nell’articolo sotto riportato, il «vascón» ha compiuto da poco settant’anni e ormai non svolge più alcuna funzione idraulica, ma in quei decenni era giovane e tutta l’attività si trovava in continua espansione.
A fianco del ciclopico fungo, negli angoli dell’ampio recinto che lo racchiudeva, sorgevano due palazzine, che ancora ci sono, immutate. Lì abitavano tre famiglie di quegli artefici del rifornimento idrico della città e per noi, loro figli, bambini e ragazzini, sembrava di vivere una grande avventura.
Nel basso fabbricato che unisce i due caseggiati, c’erano l’officina e il magazzino, cosicché il grande cortile brulicava di persone indaffarate e ferveva di lavoro.
Tutti noi bambini e ragazzi, prima o poi, e anche i nostri amici ed amiche, siamo saliti fin lassù, sulla terrazza più alta, ad ammirare uno splendido panorama.
Dall’album di famiglia: nelle due foto d’epoca, alcuni protagonisti di quella stagione sul tetto del “vascòn” e, sullo sfondo, una Fidenza molto diversa da quella di oggi (sono passati 70 anni e si vede)
Ora molte cose non ci sono più. Per esempio, la centrale di distribuzione «nuova» degli anni ’60, costruita in Corea, a fianco di Casa Rabaiotti, è stata abbattuta per far posto ad un palazzo che dà praticamente in strada.
La stessa costruzione d’avanguardia del serbatoio pensile, unica per l’originalità della forma, ha rischiato di essere demolita. Anche se, per fortuna, in tempi di telefonia mobile si rivela di nuovo utile e sul tetto brulicano le antenne.
Qualcosa è rimasto, dunque. Ma quel che rischia di scomparire è il ricordo e, oserei dire, il mito di quell’epoca e di quegli uomini, molti dei quali sono oggi scomparsi.
Un pensiero particolare vorrei dedicarlo al piccolo grande Olinto, detto familiarmente Olindo. Quando faceva il turno di notte, di sorveglianza alle macchine, molte della mie serate di studente pre-adolescente le passavo in sua compagnia, ad ascoltare i suoi racconti meravigliosi ed eccitanti.
Un altro grande maestro, tra i più giovani, è stato Dionisio, poeta e pittore. Lui abita ancora nella stessa palazzina dove sono stato io fino a vent’anni e, meglio di me, potrebbe essere il cantore di quella grande stagione.
Ma io mi chiedo: perché, ad esempio, non mettere una targa in Via Cairoli che ricordi il pozzo n. 1 dell’acquedotto fidentino? Tra l’altro non sono neppure sicuro che la salvaguardia del sito sia impeccabile. L’area verde del vecchio complesso è accessibile a privati dal retro. C’è un varco nella siepe metallica del caseggiato della parallela Via Pisacane n. 6 che consente l’accesso (indicato dalla freccia nella foto sotto) a un’area che dovrebbe essere ancora pubblica e costituire un piccolo patrimonio storico di tutti i cittadini. Ci sono posizionati un tavolino e delle sedie che, persino dal satellite, guardando bene, si individuano.
Un pozzo da cui sgorga acqua è pur sempre un miracolo della natura che va ammirato anche quando ha finito di svolgere la sua funzione.
La foto sotto dà un’idea viva della soddisfazione che esprimevano quegli artefici “eroici” della prima rete idrica comunale borghigiana e del clima avventuroso e pionieristico che ha caratterizzato quell’epoca.
Una foto del 30 giugno 1959: si collauda un pozzo che ha la portata di 60 litri al secondo. Al centro dell’immagine l’ingegner Vittorio Chiapponi.
Il direttore dell’acquedotto civico fino al 1972, l’ingegner Vittorio Chiapponi, che appare nella foto, fu anche arguto scrittore e proprio a quella grande avventura ha dedicato un suo libriccino che ora è una rarità bibliografica: I sinquant’âni del «vascón» 1937-1987 che porta come eloquente sottotitolo: «Brevi memorie sull’approvvigionamento idrico di Fidenza».
E allora mi vengono altre domande: perché non utilizzare i locali abbandonati dell’officina e del magazzino del vecchio acquedotto, nonché la stessa base del fungo, per realizzare una specie di museo storico della distribuzione delle acque nel Borgo?
Nella foto, la base del “fungo”, che era occupata dai filtri dell’acqua e, nel sotterraneo, dalle turbine. Dietro, nel fabbricato basso, la porta e le due finestre scure della vecchia officina.
Io coltivo però un’idea ancor più balzana e, perciò, temo, totalmente inattuabile per un qualche ostacolo di natura burocratica o economica. Comunque, lo chiedo ugualmente: non si potrebbe usare la torre come attrattiva turistica e far salire fin lassù, o anche solo fino alla ringhiera che si vede nella foto sotto, chi volesse ammirare il panorama di Fidenza?
Negli anni ’50 e ’60 capitava che anche le scolaresche fossero autorizzate a visitare l’intero complesso e a provare l’emozione di raggiungere il punto più alto della torre.
Scolari adolescenti nel 1951. Sullo sfondo la Via Emilia verso Parma
Di sicuro quel che si vedrebbe ora non è più il paesaggio di una volta, ma conserva aspetti interessanti, nonostante le devastazioni e gli insulti architettonico-urbanistici che, purtroppo, non ha ancor finito di subire.
Nel basso fabbricato che unisce i due caseggiati, c’erano l’officina e il magazzino, cosicché il grande cortile brulicava di persone indaffarate e ferveva di lavoro.
Tutti noi bambini e ragazzi, prima o poi, e anche i nostri amici ed amiche, siamo saliti fin lassù, sulla terrazza più alta, ad ammirare uno splendido panorama.
Dall’album di famiglia: nelle due foto d’epoca, alcuni protagonisti di quella stagione sul tetto del “vascòn” e, sullo sfondo, una Fidenza molto diversa da quella di oggi (sono passati 70 anni e si vede)
Ora molte cose non ci sono più. Per esempio, la centrale di distribuzione «nuova» degli anni ’60, costruita in Corea, a fianco di Casa Rabaiotti, è stata abbattuta per far posto ad un palazzo che dà praticamente in strada.
La stessa costruzione d’avanguardia del serbatoio pensile, unica per l’originalità della forma, ha rischiato di essere demolita. Anche se, per fortuna, in tempi di telefonia mobile si rivela di nuovo utile e sul tetto brulicano le antenne.
Qualcosa è rimasto, dunque. Ma quel che rischia di scomparire è il ricordo e, oserei dire, il mito di quell’epoca e di quegli uomini, molti dei quali sono oggi scomparsi.
Un pensiero particolare vorrei dedicarlo al piccolo grande Olinto, detto familiarmente Olindo. Quando faceva il turno di notte, di sorveglianza alle macchine, molte della mie serate di studente pre-adolescente le passavo in sua compagnia, ad ascoltare i suoi racconti meravigliosi ed eccitanti.
Un altro grande maestro, tra i più giovani, è stato Dionisio, poeta e pittore. Lui abita ancora nella stessa palazzina dove sono stato io fino a vent’anni e, meglio di me, potrebbe essere il cantore di quella grande stagione.
Ma io mi chiedo: perché, ad esempio, non mettere una targa in Via Cairoli che ricordi il pozzo n. 1 dell’acquedotto fidentino? Tra l’altro non sono neppure sicuro che la salvaguardia del sito sia impeccabile. L’area verde del vecchio complesso è accessibile a privati dal retro. C’è un varco nella siepe metallica del caseggiato della parallela Via Pisacane n. 6 che consente l’accesso (indicato dalla freccia nella foto sotto) a un’area che dovrebbe essere ancora pubblica e costituire un piccolo patrimonio storico di tutti i cittadini. Ci sono posizionati un tavolino e delle sedie che, persino dal satellite, guardando bene, si individuano.
Un pozzo da cui sgorga acqua è pur sempre un miracolo della natura che va ammirato anche quando ha finito di svolgere la sua funzione.
La foto sotto dà un’idea viva della soddisfazione che esprimevano quegli artefici “eroici” della prima rete idrica comunale borghigiana e del clima avventuroso e pionieristico che ha caratterizzato quell’epoca.
Una foto del 30 giugno 1959: si collauda un pozzo che ha la portata di 60 litri al secondo. Al centro dell’immagine l’ingegner Vittorio Chiapponi.
Il direttore dell’acquedotto civico fino al 1972, l’ingegner Vittorio Chiapponi, che appare nella foto, fu anche arguto scrittore e proprio a quella grande avventura ha dedicato un suo libriccino che ora è una rarità bibliografica: I sinquant’âni del «vascón» 1937-1987 che porta come eloquente sottotitolo: «Brevi memorie sull’approvvigionamento idrico di Fidenza».
E allora mi vengono altre domande: perché non utilizzare i locali abbandonati dell’officina e del magazzino del vecchio acquedotto, nonché la stessa base del fungo, per realizzare una specie di museo storico della distribuzione delle acque nel Borgo?
Nella foto, la base del “fungo”, che era occupata dai filtri dell’acqua e, nel sotterraneo, dalle turbine. Dietro, nel fabbricato basso, la porta e le due finestre scure della vecchia officina.
Io coltivo però un’idea ancor più balzana e, perciò, temo, totalmente inattuabile per un qualche ostacolo di natura burocratica o economica. Comunque, lo chiedo ugualmente: non si potrebbe usare la torre come attrattiva turistica e far salire fin lassù, o anche solo fino alla ringhiera che si vede nella foto sotto, chi volesse ammirare il panorama di Fidenza?
Negli anni ’50 e ’60 capitava che anche le scolaresche fossero autorizzate a visitare l’intero complesso e a provare l’emozione di raggiungere il punto più alto della torre.
Scolari adolescenti nel 1951. Sullo sfondo la Via Emilia verso Parma
Di sicuro quel che si vedrebbe ora non è più il paesaggio di una volta, ma conserva aspetti interessanti, nonostante le devastazioni e gli insulti architettonico-urbanistici che, purtroppo, non ha ancor finito di subire.